
Che cosa sono i grani antichi?
Innanzitutto il termine stesso grani antichi non è definito in modo univoco, e si presta facilmente all'interpretazione semplicistica per la quale si tratterebbe di specie di cereali coltivate nell'antichità.
In realtà il termine raggruppa diverse tipologie di piante (Open Fields, 2015):
- specie del genere Triticum, escluso il grano duro (T. turgidum var. durum Desf.) e il grano tenero (T. aestivum L.);
- varietà di grano duro e tenero degli inizi del 1900;
- pseudocereali come il grano saraceno, la quinoa e l’amaranto.
L’interesse verso i grani antichi è dovuto soprattutto a fattori nutrizionali e organolettici. In molti consumatori è infatti sorta l’idea che il «ritorno alle origini» possa avere effetti benefici sulla salute.
Si tratta d'altronde di un fenomeno non isolato, che s’innesta sulla tendenza generale a diffidare della modernità (vedi le recenti polemiche sui vaccini). Sul banco degli accusati vi è soprattutto il glutine, che causerebbe disturbi di vario genere o addirittura malattie gravi come la celiachia. In realtà, come sappiamo, la celiachia è sì legata all'alimentazione, ma nasce da una caratteristica genetica che impedisce l’assorbimento del glutine, con conseguenze anche molto gravi. Nel caso dei celiaci il problema però non è la quantità o la qualità del glutine, bensì il divieto assoluto della sua assunzione, motivo per cui l’industria alimentare propone da tempo prodotti gluten free a base di diverse materie prime (inizialmente riso e mais, ora anche legumi e, per l’appunto, pseudocereali come la quinoa).
Per quanto riguarda i frumenti, è evidente che questi sono esclusi a priori dall'alimentazione dei soggetti celiaci, pertanto le motivazioni per il consumo di grani antichi da parte di soggetti sani vanno ricercate altrove. In attesa che la ricerca medica approfondisca l’argomento «intolleranza al glutine» (cosa diversa dalla celiachia), possiamo solo constatare che esiste una domanda, da parte dei consumatori, per varietà di frumento tenero e duro a basso contenuto di glutine.
Il caso del senatore cappelli
Il Senatore Cappelli è una varietà di frumento duro selezionata un secolo fa dal genetista Nazareno Strampelli, che negli ultimi anni è stata oggetto di un rilancio in grande stile (Salvi, 2016). Le principali caratteristiche dal punto di vista agronomico sono l’altezza della pianta (anche 1,50 metri) e la bassa resa unitaria (da 20 a 25 quintali/ettaro). Dal punto di vista tecnologico la varietà si caratterizza per un glutine non troppo tenace, che la rende potenzialmente adatta alla produzione di semola rimacinata per la panificazione. È evidente che con queste caratteristiche il Cappelli non può competere con le varietà moderne, fosse anche solo per la resa molto bassa. In effetti, agli inizi del «revival» i prezzi pagati all’agricoltore (fino a 60 euro/quintale) compensavano ampiamente il deficit produttivo, ma negli ultimi mesi la quotazione è scesa fino a 50 euro (60 per il prodotto biologico), rendendo di fatto la coltivazione del Cappelli non più particolarmente conveniente rispetto alle varietà convenzionali. Il calo del prezzo del Cappelli è dovuto sicuramente alla situazione drammatica nella quale versa in generale tutto il comparto del frumento duro, ma sorge anche un altro sospetto: come si è potuto osservare anche per altri prodotti, le «nicchie» tendono facilmente a raggiungere, dopo un periodo iniziale di forte espansione, il punto di saturazione, proprio perché la domanda è limitata e difficilmente espandibile nel medio e lungo periodo. Aggiungiamo che l’estensione delle aree coltivate potrebbe essere favorita anche dai recenti sviluppi commerciali della varietà. Infatti, i diritti di moltiplicazione e commercializzazione del Cappelli sono stati recentemente acquisti dalla Società italiana sementi, che si ripromette un’ulteriore diffusione della varietà anche negli areali dell’Emilia-Romagna, a fronte di contratti di filiera con prezzo garantito. A tale proposito non sono mancate le polemiche, con accuse di concorrenza sleale e monopolizzazione di materiali che dovrebbero essere liberamente disponibili agli agricoltori (Corriere di Bologna, 7 marzo 2017).
Punti critici dei grani antichi
Al di là degli aspetti scientifici, alcuni dei quali di sicuro interesse al livello genetico e nutrizionale, il fenomeno dei grani antichi non sembra avere particolari vantaggi per l’impresa agricola, se non nelle fasi iniziali di introduzione sul mercato delle granelle e dei loro derivati. Anche dal punto tecnologico, soprattutto i frumenti teneri antichi (quelli del gruppo 2 citato prima) lasciano molto a desiderare. Si tratta infatti di varietà con valori molto bassi di W (indice che misura la «forza» della farina, cioè la capacità di crescita dell’impasto), buone tutt’al più per la produzione di biscotti o che comunque hanno bisogno di una lievitazione molto lunga per poter essere panificate. Se a ciò aggiungiamo la loro bassa produttività, è evidente che al di là della curiosità iniziale da parte di produttori e consumatori non vi è molto futuro per queste varietà. Un altro argomento portato spesso a favore dei grani antichi sarebbe la libera disponibilità dei materiali genetici, per i quali gli agricoltori non devono pagare royalties. Ricordiamoci che una varietà per essere definita tale deve sottostare alla valutazione Dus (Distinzione, uniformità e stabilità ), a garanzia della produttività (per l’agricoltore) e della qualità (per gli utilizzatori industriali e per i consumatori), e ciò può essere garantito solamente da un’attività di breeding condotta con metodi scientifici. L’unico commento possibile è: vogliamo realmente abbandonare ogni forma di progresso scientifico in nome di un improbabile «ritorno alle origini»?
Problematiche da considerare
Al di là delle criticità rilevate, il tema dei grani antichi solleva alcune problematiche per niente banali. Innanzitutto gli aspetti nutrizionali: oltre al fatto che le esigenze dei consumatori siano fittizie o reali, esiste una crescente domanda per prodotti specifici a base di cereali o pseudocereali della quale il mondo agricolo deve necessariamente tenere conto. Il problema maggiore è che dal punto di vista produttivo i grani antichi non offrono necessariamente una risposta sostenibile in termini agronomici ed economici. Soprattutto per quanto riguarda il frumento duro, la ricerca varietale degli ultimi 50 anni è stata orientata soprattutto alle caratteristiche tecnologiche, in modo da produrre grani adatti alla pastificazione con glutine particolarmente tenace («al dente»). In un’ottica di diversificazione delle materie prime, dei semilavorati e dei prodotti finiti è perciò giusto differenziare le attività di ricerca e sviluppo delle varietà, in modo da ottenere frumenti che, pur soddisfacendo esigenze specifiche espresse dai consumatori, non penalizzino la produttività delle colture, salvaguardano così il reddito delle imprese agricole.
"Realtà e miti da sfatare dei «grani antichi»", di H. Lavorano, pubblicato su L'Informatore Agrario n.18/2017