
Nonostante la marcata crescita delle rese, la produzione di frumento tenero si attesta ormai stabilmente su livelli compresi tra 3,0 e 3,8 milioni di tonnellate, un quantitativo – anche tenuto conto che tutta la produzione nazionale non è o non può essere destinata totalmente alla sola industria molitoria – largamente insufficiente a coprire le esigenze quantitative del sistema molitorio italiano che si collocano attorno a 5,5 milioni di tonnellate all'anno.
Gli ultimi dati dell’Anacer indicano infatti che nel 2015 l’Italia ha importato oltre 3,9 milioni di tonnellate di grano tenero: «La produzione italiana, oltre che rappresentare una frazione modesta su quella globale, sconta una posizione di debolezza e di scarsa competitività in riferimento a quella di altri Paesi: Francia e Germania, in primis, per qualità, forza organizzativa e dimensione dei lotti commercializzati, e altri Paesi, quali quelli dell’Est Europa o delle Americhe, per struttura dei costi».
Per uscire da questo circolo si possono percorrere due strade: «la prima, fino a ora prevalente, è quella di proseguire nelle produzioni di base poco caratterizzate e solo sufficienti ad essere poi miscelate in misura diversa con quelle importate per ottenere la qualità voluta delle farine; la seconda è quella di attivare filiere complementari ad alto livello di specializzazione per rispondere a precise esigenze qualitative».
Negli ultimi 30 anni il comparto dei cereali si è trasformato drasticamente da un punto di vista dell’offerta, siamo passati dal concetto di commodity a quello di specialty e la frontiera alla quale guardare è la cosiddetta «CDD», cioè la «Consumer-Driven Demand», domanda guidata dal consumatore. «In altre parole – sostiene Reyneri – è essenziale attivare un processo guidato di conversione del frumento da commodity a specialty, rispondendo quindi a quanto il mercato chiede ai produttori».
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