
Le nostre importazioni pagate in dollari USA riguardano infatti soprattutto commodities a basso valore aggiunto, come i cereali e i semi oleosi (o i loro derivati: grassi vegetali, ecc.), mentre le materie prime più costose (latte e derivati, carne, olio d’oliva) vengono pagate quasi sempre in euro. Cereali e semi oleosi entrano a far parte dei nostri prodotti finiti in misura variabile, ma raramente rappresentano un elemento di costo tale da temere un effetto inflattivo sui prezzi finali. Inoltre bisogna tenere presente che si tratta di acquisti il cui prezzo viene fatto con mesi di anticipo, e chi compra si preoccupa quasi sempre di fissare il cambio euro/dollaro al momento dell’acquisto.
Un esempio concreto: uno dei nostri prodotti alimentari preferiti (nonché cavallo di battaglia del made in Italy all'estero), la pasta, viene prodotta per il 70% con grano duro nazionale e per il restante 30% con grano d’importazione, sia comunitario che non (Canada, Usa, Messico). Se anche l’euro svalutasse del 10% rispetto al dollaro Usa, l’impatto sul costo complessivo di un kg di pasta sarebbe minimo.
Il grano duro rappresenta al momento circa il 50% del costo di produzione della pasta, tenendo per buona la proporzione sopra riportata, il rincaro sarebbe appena dell’1,5%, che verrebbe oltre tutto avvertito dal consumatore con qualche mese di ritardo, visto che molti acquisti di materia prima sono già stati effettuati in anticipo. In sintesi, non sembra che l’attuale svalutazione (il cambio è passato da 1,24 a 1,18 dollaro/euro in un mese) avrà effetti particolarmente drammatici sul prezzo finito dei nostri prodotti agroalimentari.